Lo scritto ha per oggetto la questione del possibile conflitto tra l’esigenza di ripianare le perdite generate nelle società a partecipazione pubblica in conseguenza della crisi pandemica, da un lato, e il divieto di soccorso finanziario di cui all’art. 14, comma 5, del Testo Unico delle società a partecipazione pubblica, dall’altro. La norma del Testo Unico prevede che le amministrazioni socie, salvo alcune specifiche eccezioni, non possano prestare alcuna forma di assistenza finanziaria in favore delle partecipate che abbiano registrato perdite per tre esercizi consecutivi. E, diversamente dalla disciplina dettata dal codice civile in materia di riduzione del capitale per perdite e di ricapitalizzazione quale onere per evitare lo scioglimento per il caso di perdita del capitale al disotto del minimo legale, la norma del Testo Unico sul divieto di soccorso finanziario non è stata sospesa, né ha formato oggetto di deroga o adattamento alla straordinarietà del momento storico. Nello scritto si esporranno le ragioni che potrebbero essere addotte in favore – e, rispettivamente, contro – i possibili tentativi di pervenire a una “razionalizzazione” del sistema attraverso un’interpretazione correttiva ed evolutiva del disposto normativo.
The paper deals with the issue of the possible conflict between, on one side, the need to settle the losses generated in State-owned companies as a result of the pandemic crisis, and, on the other side, the prohibition of financial relief pursuant to art. 14, par. 5, of the Consolidated Law on State owned companies. The rule of the Consolidated Law appoints that shareholders administrations, with few specific exceptions, cannot provide any form of financial assistance in favor of investee companies which have recorded losses for three consecutive years. And, unlike the discipline prescribed by the civil code about the reduction of capital for losses and recapitalization as a burden to avoid the dissolution in the event of losing capital below the legal minimum, the rule of the Consolidated Law about the prohibition of financial assistance does not has been suspended, nor has it been subject to derogation or adaptation to the extraordinary nature of the historical moment. The paper will explain the reasons that could be adduced in favor or against the possible attempts to achieve a “rationalization” of the system through a corrective and evolutionary interpretation of the regulatory provisions.
Keywords: State-owned companies – settlement of the losses – Covid 19 – pandemic – reduction of the share capital due to losses
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1. Introduzione e obiettivi - 2. Il tema delle perdite (stricto sensu) nella legislazione emergenziale: la sospensione delle norme recanti l’obbligo di procedere alla immediata riduzione del capitale e/o alla messa in liquidazione della società - 3. (Segue): il tema delle perdite (lato sensu) nella legislazione emergenziale: il rinvio dell’entrata in vigore della disciplina dettata dal Codice della crisi (anche) in materia di “allerta”; le possibili deroghe ai criteri di redazione dei bilanci nella prospettiva della continuità aziendale - 4. (Segue): alcuni profili comuni e principi generali, ricavabili dal complesso delle misure normative emergenziali, rilevanti ai fini del successivo percorso interpretativo - 5. (Segue): il criterio di fondo ispiratore delle misure normative emergenziali e il principio generale che se ne può ricavare - 6. L’assenza, nella legislazione emergenziale, di disposizioni di sospensione, deroga o adattamento dell’art. 14, comma 5, TUSPP, sul c.d. “divieto di soccorso finanziario” per le partecipate pubbliche in condizioni di perdita reiterata. Il ruolo dell’interprete e gli stimoli alla sperimentazione di possibili letture “correttive” - 7. Una prima possibile obiezione: la registrazione di perdite per tre esercizi consecutivi, avendo un’estensione maggiore rispetto al possibile impatto della crisi pandemica, rimarrebbe indice sufficiente a rivelare una endemica incapacità della società partecipata di reggere in condizioni di autonomo equilibrio - 8. (Segue): superamento dell’obiezione: ipotizzabilità di casi nei quali, nonostante l’estensione triennale del presupposto costitutivo della fattispecie, (proprio e solo) la contingenza pandemica potrebbe aver contribuito, in modo decisivo ed esclusivo o in modo concorrente, al suo perfezionamento - 9. Una seconda possibile obiezione: l’art. 14, comma 5, TUSPP conterrebbe in sé rimedi sufficienti, senza alcuna necessità di ricorrere ad interpretazioni correttive - 10. (Segue): superamento dell’obiezione: l’inadeguatezza del rimedio dell’autorizzazione governativa a fronteggiare una crisi generalizzata di sistema; l’incapacità del rimedio del piano di risanamento a superare le rilevate aporie del sistema; il paradosso della possibile sterilizzazione della esenzione per il caso di perdita del capitale al disotto del minimo legale - 11. Una terza possibile obiezione e il suo superamento: interessi connessi alla finanza pubblica vs. interesse alla conservazione dell’impresa - 12. Le prime reazioni: la sollecitazione di interventi normativi correttivi; l’invocazione di interpretazioni correttive, informate a criteri di ragionevolezza - 13. I possibili itinerari interpretativi “correttivi”: A) la “sospensione tacita” dell’intera norma; B) la sospensione del solo computo del 2020 nel calcolo del triennio - 14. A) La “sospensione tacita”: il possibile fondamento sistematico e l’ipotesi di ricostruirla come una sorta di “abrogazione (temporanea) tacita” - 15. (Segue): gli ostacoli all’accoglimento di una siffatta soluzione: (i) assenza di una relazione di “incompatibilità” tra la persistente applicazione del divieto di soccorso finanziario e la sospensione della disciplina in tema di riduzione obbligatoria del capitale - 16. (Segue): (ii) La sospensione tacita come rimedio non corretto (inadeguato “per eccesso”) e non efficace (inadeguato “per difetto”) rispetto all’obiettivo cui dovrebbe tendere - 17. B) La sospensione del termine triennale: ancora su talune possibili obiezioni “in apicibus” e sul loro superamento - 18. (Segue): la sospensione del termine come possibile risultato di un’interpretazione teleologicamente, costituzionalmente e sistematicamente orientata, con ulteriore possibile supporto anche in chiave apagogica - 19. (Segue): un ostacolo (e il suo superamento) al pacifico accoglimento dell’interpretazione prospettata: l’ipotesi che si tratti, nella sostanza, di una forma di interpretazione analogica, impedita dal carattere eccezionale e derogatorio del principio oggetto di estensione - 20. Una ricaduta applicativa della prospettata interpretazione: la sospensione del termine come misura non automatica, ma selettiva e condizionata - 21. Una ulteriore notazione: necessità di evitare in ogni caso un’interpretazione dell’art. 6 del Decreto Liquidità in un modo che finisca per rendere illegittimi interventi pubblici di ricapitalizzazione in favore di società che abbiano sofferto perdite tali da condurre il capitale al disotto del minimo legale - 22. Alcune precisazioni finali - NOTE
Il ripianamento delle perdite generate dalla pandemia nelle società a partecipazione pubblica è un tema che presenta profili di criticità assai rilevanti non solo sotto il profilo economico-sostanziale, ma anche sotto quello giuridico-formale. E ciò in ragione di un regime normativo che potrebbe tradursi in un ostacolo tale da impedire il ripianamento pur a fronte della disponibilità, da parte delle amministrazioni pubbliche socie, di risorse sufficienti alla copertura delle perdite e pur a fronte della volontà politica di intervenire per il salvataggio della partecipata. Un regime – dettato dall’art. 14, comma 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica»; d’ora innanzi, il “TUSPP” o il “Testo Unico”), sul c.d. “divieto di soccorso finanziario” pubblico in favore di partecipate in condizioni di perdita reiterata – che appartiene allo speciale statuto normativo delle società a partecipazione pubblica, ad esse applicabile in via ordinaria e al quale il legislatore dell’emergenza non ha dedicato una specifica attenzione. Difatti, diversamente da quanto avvenuto con riguardo alla disciplina di diritto societario comune, non sono state varate disposizioni che ne sospendessero l’applicazione o che recassero deroghe o adattamenti alle peculiarità contingenti connesse alla crisi pandemica. Si potrebbe discutere se l’assenza di misure straordinarie ad hoc sia ascrivibile a una scelta politica consapevole e selettiva o non, piuttosto, a una lacuna omissiva e a un conseguente difetto (non voluto) di razionalizzazione del sistema. Sta di fatto, in ogni caso, che nei lavori preparatori dei diversi decreti legge e delle rispettive leggi di conversione, succedutisi in questi mesi, non si rinvengono manifestazioni esplicite, né indici di alcun tipo che diano corpo alla prima ipotesi. Il che giustifica il tentativo di verificare se non vi siano spazi per un’interpretazione “correttiva” (e, in un certo senso, “evolutiva”) di un regime normativo che, formulato con riguardo a scenari ordinari, condurrebbe a risultati non sempre coerenti con la straordinarietà dell’attuale contingenza storica e tali da stravolgere significativamente tanto l’assetto degli interessi che con quella disciplina si [continua ..]
Come anticipato, al tema delle “perdite” generate dalla pandemia è stata dedicata, nella legislazione emergenziale, una particolare attenzione, con l’introduzione di previsioni ad hoc, applicabili a tutte le società, senza distinzione tra società “private” e società “pubbliche”. In tale contesto, volendo allargare la prospettiva e fornire un panorama più ampio e completo del quadro normativo di riferimento, val la pena di considerare unitariamente tanto le disposizioni espressamente e specificamente dedicate alle perdite in senso stretto [disposizioni sub (A), in questo paragrafo], quanto anche ulteriori disposizioni che con il tema delle perdite presentano una qualche forma di correlazione sul piano causale o effettuale [disposizioni sub (B), nel paragrafo a seguire]. (A) Misure normative specifiche in tema di perdite sono quelle dettate nell’art. 6, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. con modif. in legge 5 giugno 2020, n. 40 (e recante «Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali»; c.d. “Decreto Liquidità”), rubricato “Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale”, a tenore del quale «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la predetta data non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile». Dunque, per gli esercizi chiusi entro il 31 dicembre 2020, è sospesa l’applicazione delle norme che imporrebbero di procedere senza alcuna dilazione alla riduzione del capitale per perdite e che sancirebbero lo scioglimento della società in assenza di una corrispondente “ricapitalizzazione” (o, laddove sufficiente, di una trasformazione in altro tipo di società). È quindi sospesa l’applicazione non già dell’intera disciplina dettata [continua ..]
(B) Nella legislazione emergenziale sono poi contenute anche norme che, pur non riguardando le “perdite” in senso stretto, diretto e specifico, presentano profili di connessione o di qualche interrelazione tali da consentire di ricondurle, se non ad unità sistematica e concettuale, quanto meno a un quadro di politica legislativa e/o di valori omogeneo con quello sotteso alle disposizioni in tema di perdite. (B-1) La prima di tali norme è quella di cui all’art. 5 del Decreto Liquidità, con cui è stato disposto il rinvio dell’entrata in vigore delle norme del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza» (d’ora innanzi, il “Codice della crisi”) dal 16 agosto 2020 al 1° settembre 2021 e, tra queste, delle disposizioni recanti la disciplina della c.d. “allerta” (“interna” ed “esterna”), di cui agli artt. 12 ss. Una disciplina che sancisce, tra l’altro, doveri di attivazione (interni ed esterni alla società) al verificarsi di segnali di “crisi” e che, dunque, è fortemente interrelata al tema delle perdite, posto che perdite che conducano a un patrimonio netto negativo o in ogni caso inferiore al limite legale costituiscono ex se uno degli “indici” di crisi, tale da giustificare ed imporre il ricorso agli strumenti di allerta [1]. Anche in questo caso, dunque, la valutazione è nel senso che i meccanismi di allerta, interna ed esterna, avrebbero finito per dover essere attivati in un numero elevatissimo di casi, in modo pressoché generalizzato e indiscriminato, senza alcun filtro selettivo che potesse tenerne esenti imprese che, in assenza della crisi pandemica, avrebbero invece conservato condizioni di equilibrio e che, cessata l’emergenza, potrebbero riconquistare l’equilibrio temporaneamente perduto. (B-2) La seconda di tali norme è quella di cui all’art. 7 dello stesso Decreto Liquidità, con cui è concessa la possibilità di derogare ai criteri di redazione del bilancio nella prospettiva della continuità aziendale per società il cui equilibrio e la cui continuità siano stati minati proprio ed esclusivamente dalla “crisi pandemica”: «Nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci [continua ..]
Ai fini del percorso interpretativo che sarà più avanti sperimentato con riguardo al regime applicabile alle società pubbliche, mette conto anticipare fin da ora che assumeranno particolare rilevanza i seguenti profili: (i) tutte e tre le misure normative sospensive e/o derogatorie sopra passate in rassegna sono applicabili anche alle società a partecipazione pubblica e a controllo pubblico: il che è agevolmente argomentabile dal fatto che gli artt. 5-7 del Decreto Liquidità non fanno, a tale riguardo, alcuna distinzione, in uno col principio generale sancito dall’art. 1, comma 3, TUSPP, secondo cui «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato»; (ii) il fine dichiarato è quello di scongiurare il rischio che si estinguano imprese che senza la crisi pandemica avrebbero conservato una propria continuità e un proprio equilibrio economico, secondo una linea di politica legislativa che, al di là degli obiettivi più specifici propri di ciascuna delle tre disposizioni, appare comune a tutte e, anzi, si riscontra anche in altre previsioni della legislazione emergenziale, al punto da assurgere a principio generale ispiratore dell’intera disciplina (e da linea guida di quello che costituisce ormai un vero e proprio “micro-sistema” normativo); (iii) sospensione e deroghe sono calibrate in modo mirato e selettivo. E difatti: (iii-1) oggetto di sospensione, nella norma relativa alle perdite di capitale, non sono gli obblighi di monitoraggio, né gli obblighi informativi e di coinvolgimento della compagine sociale nella adozione degli opportuni provvedimenti, ma solo gli obblighi di procedere alla immediata riduzione del capitale e/o alla messa in liquidazione della società; (iii-2) quanto alla disciplina dell’allerta, alla proroga della data di entrata in vigore delle norme dettate (inter alia) dall’art. 14 del Codice della crisi non si è accompagnata la sospensione delle disposizioni del codice civile (tanto quelle previgenti, quanto quelle introdotte dallo stesso Codice della crisi e già entrate in vigore) sui doveri di istituzione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati anche ai fini e in funzione della tempestiva [continua ..]
Come detto, obiettivo comune dichiarato delle misure normative emergenziali fin qui passate in rassegna è quello di preservare la sopravvivenza di imprese che, in assenza di dette misure, sarebbero stato condannate all’estinzione. La ratio così individuata, tuttavia, deve essere meglio definita e calibrata. Se ci si arrestasse a tale generica affermazione, difatti, sarebbe agevole obiettare che la condanna all’estinzione potrebbe essere in ogni caso sentenziata dal prosciugamento delle risorse necessarie ad alimentare la continuazione dell’impresa e che, invero, la sopravvivenza dell’impresa non potrebbe essere assicurata da misure normative di carattere meramente formale, ma semmai e solo dalla iniezione di risorse capaci di ristorare le finanze dell’impresa e di fornirle il carburante necessario ad evitare lo spegnimento dei motori [3]. Ed invero, a ben vedere, ratio e funzione delle misure normative in commento possono essere ricostruite rielaborando in modo più analitico ed articolato il ragionamento che vi sottende. Un ragionamento che parte da una premessa basata su una presunzione frutto di un giudizio probabilistico e ne trae una conseguenza con cui si modifica provvisoriamente il regime normativo che sarebbe stato altrimenti applicabile al fine di evitare che lo stesso conduca a conseguenze generalizzate non coerenti con gli interessi che quello stesso regime normativo, in condizioni ordinarie, è inteso a tutelare. (i) Il presupposto da cui si prendono le mosse è costituito da una sorta di premessa di fatto, alla quale si riconnette un giudizio di valore di ispirazione eminentemente probabilistica e che, a sua volta, si traduce in una corrispondente presunzione: la presunzione che una perdita del capitale e/o una situazione di crisi (attuale o potenziale, conclamata o incipiente) e/o una perdita della continuità aziendale, se verificatesi nel 2020, possano reputarsi dovute, in via esclusiva o comunque determinante, agli effetti della più generalizzata crisi pandemica (la crisi, cioè, di un intero sistema economico, come generata dalla pandemia e/o dalle misure normative restrittive che si è reso necessario adottare per fronteggiare l’emergenza sanitaria). Si tratta di presunzione basata, come detto, su assunzioni probabilistiche: è ragionevole immaginare che, nella grande maggioranza dei casi, la perdita del capitale, la situazione di [continua ..]
Come anticipato, è fin qui mancata, nella legislazione emergenziale, l’introduzione di disposizioni che recassero una sospensione (come quella disposta con l’art. 6 e, in senso lato, con l’art. 5 del Decreto Liquidità con riguardo alla disciplina codicistica delle perdite e alla proroga dell’entrata in vigore delle disposizioni del Codice della crisi anche in materia di allerta) o accordassero delle deroghe (come quella disposta dall’art. 7 del Decreto Liquidità con riferimento ai criteri di redazione dei bilanci) rispetto al c.d. “divieto di soccorso finanziario” imposto ai soci pubblici in relazione a società partecipate che abbiano chiuso in perdita per tre esercizi consecutivi. In particolare, ai sensi dell’art. 14, comma 5, TUSPP, e fatte salve una serie di eccezioni su cui si tornerà più avanti, le pubbliche amministrazioni «… non possono, sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali». Dunque è preclusa ogni forma di assistenza finanziaria, sia mediante apporto di capitale di rischio (sottoscrizione di aumenti di capitali o effettuazione di trasferimenti straordinari a fondo perduto), sia mediante concessione di capitale di credito (nell’espressione “aperture di credito” dovendo intendersi compresa qualunque tipologia negoziale e/o finanziaria con cui l’erogazione potrebbe astrattamente avvenire), quand’anche in forma indiretta (ovverosia mediante il rilascio di garanzie). E il presupposto che fa scattare il divieto è che la partecipata abbia registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio o abbia utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali (l’inciso «per tre esercizi consecutivi», per quanto collocato in modo non corretto nell’ambito del periodo, dovendo pacificamente intendersi come riferito ad entrambe le sub-fattispecie ivi contemplate [6]). Già ad una prima lettura, dunque, si comprende come la mancata sospensione (in tutto o in parte) [continua ..]
Prima facie si potrebbe obiettare che il problema poc’anzi sollevato non avrebbe ragione di porsi e che, anzi, non vi sarebbero lacune normative o difetti di razionalità complessiva del sistema meritevoli di una qualche correzione. E ciò per tre diversi ordini di ragioni, di cui si darà qui brevemente conto. Un primo ordine di ragioni andrebbe ravvisato nel fatto che il divieto di soccorso finanziario sancito dall’art. 14, comma 5, TUSPP, è circoscritto al caso delle società partecipate che abbiano chiuso in perdita per almeno tre esercizi consecutivi. Il presupposto che innesca il divieto, dunque, è costruito e descritto in un modo tale per cui non potrebbe mai affermarsi che la (sola) crisi pandemica possa averne generato l’attivazione. La crisi pandemica avrebbe, invero, al più potuto incidere sui risultati dell’esercizio 2020, ma se alle perdite del 2020 si aggiungono quelle già prodottesi negli esercizi 2018 e 2019, ciò significa che le condizioni di squilibrio in cui quella determinata partecipata opera prescinderebbero dalla crisi pandemica, sarebbero ad essa preesistenti e risulterebbero continue e persistenti. La registrazione di perdite nei tre esercizi, dunque, conserverebbe, pur nella peculiarità del momento storico, la propria valenza di indice rivelatore di una incapacità endemica di quell’impresa di reggere in condizioni di autonomo equilibrio. Ciò sarebbe quindi sufficiente a giustificare la diversità di trattamento normativo e ad impedire in radice soluzioni interpretative di tipo correttivo. In tale prospettiva, per di più, varrebbe aggiungere che è lo stesso legislatore, nell’ambito dello statuto normativo speciale dell’emergenza, a mostrare di voler circoscrivere le misure straordinarie di favore per la continuità delle imprese a quelle sole, tra esse, che non fossero in condizioni di squilibrio già prima e a prescindere dalla crisi pandemica, come sarebbe testimoniato dalla previsione, di cui all’art. 7 del Decreto Liquidità, che – come si è visto – subordina (e dunque circoscrive) la facoltà di operare la valutazione delle voci di bilancio nella prospettiva della continuazione dell’attività alla condizione che la continuità «risult[i] sussistente nell’ultimo bilancio chiuso in data anteriore [continua ..]
A ben vedere, tuttavia, si tratterebbe di obiezione che “prova troppo” e che non reggerebbe a una più attenta analisi. In primo luogo, la delimitazione operata all’art. 7 del Decreto Liquidità non si riscontra nell’art. 6, che, diversamente dall’art. 7, è quello recante le misure normative che più direttamente (e non già solo per una qualche forma di generica connessione) investono il tema delle perdite e che, quindi, più direttamente entrerebbero in correlazione sistematica con il ragionamento che si sta svolgendo sui presupposti del divieto di soccorso finanziario di cui all’art. 14, comma 5, TUSPP. Inoltre – ed è questo il rilievo decisivo – possono essere agevolmente individuate delle ipotesi nei quali, nonostante l’estensione triennale del presupposto costitutivo della fattispecie, (proprio e solo) la contingenza pandemica possa aver contribuito al suo perfezionamento (i) quale causa decisiva ed esclusiva o (ii) quale causa concorrente. Sub (i): si faccia il caso di una partecipata che avesse chiuso in perdita gli esercizi 2018 e 2019, ma si trovasse tuttavia in una fase di recupero dell’equilibrio, tale per cui, in assenza della crisi pandemica, avrebbe chiuso l’esercizio 2020 (il terzo esercizio del triennio) con un ritorno all’utile o al pareggio. La crisi pandemica, in quest’ipotesi, sarebbe l’unica e decisiva ragione della chiusura in perdita dell’esercizio 2020 e, quindi, l’unica e decisiva ragione del perfezionamento del presupposto (la registrazione di perdite per tre esercizi consecutivi) costitutivo della fattispecie che innescherebbe il divieto di soccorso finanziario. Sub (ii): si faccia il caso di una partecipata il cui bilancio 2020 dovesse chiudersi in perdita solo a causa della crisi pandemica, senza la quale la chiusura sarebbe stata in utile o in pareggio. In tale ipotesi, ove l’esercizio 2019 si fosse chiuso senza registrazione di perdite, la perdita provocata dalla crisi pandemica innescherebbe l’avvio del possibile triennio, sicché, per evitare il perfezionamento della fattispecie generativa del divieto di soccorso finanziario, alla partecipata rimarrebbero due soli esercizi (2021 e 2022), invece di tre (2021, 2022 e 2023). In termini finanche più marcati, ove fossero state registrate perdite nell’esercizio 2019 a fronte di un 2018 in [continua ..]
Un secondo ordine di ragioni per le quali si potrebbe obiettare che non vi sarebbero lacune normative o difetti di razionalità complessiva del sistema meritevoli di una qualche correzione starebbe nella considerazione della più ampia e complessiva portata dell’art. 14, comma 5, TUSPP, dalla quale potrebbe ricavarsi l’impressione che la norma contenga in sé rimedi sufficienti a scongiurare i rischi sopra paventati e a consentire una piena razionalizzazione dell’impianto normativo. I rimedi in questione sarebbero quelli rinvenibili nelle tre ipotesi, espressamente contemplate dalla norma, recanti esenzioni o deroghe al divieto: ipotesi nelle quali – potrebbe astrattamente assumersi – potrebbero trovare agevolmente spazio e collocazione anche e proprio le situazioni contingenti legate alla crisi pandemica. (i) Il DPCM. In particolare, verrebbe in rilievo la deroga che potrebbe essere accordata mediante apposito DPCM: come previsto nel terzo periodo dell’art. 14, comma 5, difatti, «Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma». Per di più la norma fa testualmente riferimento a possibili «gravi pericoli per … la sanità», così evocando, sia pure ante litteram, scenari corrispondenti a quelli connessi con la crisi pandemica e in un certo senso confermando la particolare idoneità del rimedio a far fronte a situazioni straordinarie come quella in atto, con possibilità quindi di attingere alla norma nella sua configurazione ordinaria e senza necessità di ricorrere a soluzioni interpretative di tipo “correttivo”. (ii) Il piano triennale di risanamento. Altrettanto potrebbe dirsi per l’ulteriore deroga, contemplata nel secondo periodo dello stesso art. 14, comma 5, a tenore del quale «Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari alle società di cui al primo periodo, a fronte di convenzioni, [continua ..]
Anche questa seconda obiezione, tuttavia, proverebbe troppo e sarebbe insufficiente a dirimere i dubbi sollevati sulla razionalità del sistema. Sub (i). La deroga costituita dalla possibilità di ricorrere a un’autorizzazione ad hoc per il tramite di un DPCM sarebbe invero misura insufficiente a fronteggiare una situazione di crisi generalizzata come quella in atto. E ciò non tanto per il fatto che si tratterebbe di deroga concepita e disciplinata come extrema ratio, giacché la straordinarietà dello scenario pandemico potrebbe pacificamente (ed anzi, si direbbe, paradigmaticamente) ascriversi ad ipotesi per l’appunto “estrema”, quanto per il fatto che i presupposti per la concessione dell’autorizzazione sono immaginati e riferiti a singole e determinate società e non già alla generalità del sistema. Sicché è proprio il carattere diffuso e generalizzato della straordinarietà degli eventi che connotano la crisi pandemica a poter inficiare (se addirittura ad inceppare) il funzionamento del meccanismo e la sua capacità di far fronte ai pericoli sopra paventati. E difatti la possibilità di avvalersi di siffatta deroga presuppone che venga percorso un iter complesso, che prende le mosse dalla presentazione di un’istanza da parte della singola amministrazione socia (il che già di per sé implica l’espletamento dell’iter deliberativo e burocratico ad essa specifico), passa attraverso un concerto tra il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti, presuppone la formulazione di una “proposta” presentata dagli stessi Ministri all’esito positivo del concerto, si conclude con l’adozione di apposito DPCM e la registrazione della Corte dei Conti: il tutto, per l’appunto, per singola società e non già quale misura collettiva e generalizzata [8]. Lo stesso riferimento ai gravi pericoli per (la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico o) la sanità è inteso dalla norma in un modo diverso (e in un certo senso capovolto) rispetto a quello che verrebbe qui in rilievo. Nell’attuale contingenza storica, difatti, i gravi pericoli alla sanità sarebbero le ragioni che hanno indotto all’adozione delle misure normative restrittive che hanno a loro volta concorso a generare la crisi economica di sistema [continua ..]
Una terza obiezione che potrebbe essere sollevata in apicibus ad ogni ipotesi che volesse cimentarsi nella sperimentazione di possibili interpretazioni correttive del dato normativo sarebbe quella di sostenere che la scala dei valori perseguiti dal sistema sia tale per cui la sopravvivenza delle società a partecipazione pubblica e, quindi, la conservazione delle relative imprese avverso il rischio dell’estinzione non costituirebbero interessi reputati primari e preminenti, essendo invece recessivi di fronte all’interesse, di rango ad essi superiore, ad evitare una emorragia di risorse finanziarie pubbliche. Di tal che, pur a fronte del pericolo che la crisi pandemica possa portare a quelle alterazioni, cui si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi, del meccanismo con cui ordinariamente opererebbe la norma e si comporrebbero i relativi presupposti, la “perdita” di società ed imprese pubbliche che deriverebbe quale conseguenza unica o concorrente della crisi medesima non sarebbe valutabile come una assoluta incongruenza (sul piano sistematico o assiologico), giacché, pandemia o meno, in ogni caso prevarrebbe il diverso (ed opposto) interesse ad evitare che l’estinzione possa essere scongiurata solo grazie ad interventi finanziari pubblici che si spingano al di là dell’orizzonte temporale stabilito. Ma anche questa possibile obiezione non coglierebbe nel segno. È, invero, assolutamente pacifico che l’interesse ad evitare una continua emorragia di risorse pubbliche assurga a valore di sistema, ma il rapporto con l’interesse (del pari) generale alla conservazione dell’impresa non potrebbe essere posto in termini di antitesi frontale ed assoluta, come conferma proprio l’eccezione, automatica e generalizzata, che lo stesso art. 14, comma 5, TUSPP, introduce con riguardo al caso che le perdite siano tali da portare a una riduzione del capitale al disotto del minimo legale. L’eccezione si giustifica proprio per il fatto che, in assenza della ricapitalizzazione, la società sarebbe destinata allo scioglimento: il che darebbe supporto proprio all’ipotesi contraria, ovverosia che, stando all’ordine dei valori perseguiti dal sistema, laddove l’interesse generale ad evitare emorragie di risorse pubbliche si dovesse trovare in frontale contrapposizione con l’interesse alla sopravvivenza dell’impresa, sarebbe [continua ..]
Superate le possibili obiezioni iniziali, risulta dunque confermato che l’assenza di misure di sospensione, deroga o adattamento del divieto di soccorso finanziario di cui all’art. 14, comma 5, TUSPP espone il sistema al rischio di innescare un vero e proprio corto circuito, ovverosia di tradursi in un ostacolo che impedirebbe di salvare società a partecipazione pubblica dal rischio di estinzione pur allorquando la sopravvivenza sia stata pregiudicata in via esclusiva o determinante dagli effetti della crisi pandemica. Le reazioni che tale situazione ha suscitato sono state allora di due tipi: quella di sollecitare un intervento correttivo da parte del legislatore, esortando a dettare norme ad hoc volte ad evitare i rischi sopra paventati; e quella di tentare la via di una interpretazione/applicazione correttiva, informata a criteri di ragionevolezza. Nel primo senso si è espressa la stessa “task force Colao” [12], oltre all’ANCI e al CNDCEC [13], oltre a quella parte degli interpreti che hanno evidentemente reputato che non vi siano spazi per letture correttive del dato normativo o che, pur non escludendolo, sono giustamente convinti che una soluzione di taglio legislativo presenterebbe comunque il vantaggio di essere soluzione dotata del sigillo normativo, frutto di opzioni chiare di politica legislativa ad opera di chi ne ha la corrispondente investitura e la connessa responsabilità politica, univoca e chiara nel contenuto e nelle condizioni e quindi esente dalle incertezze che sono invece tipicamente connaturate alle soluzioni di taglio (meramente) interpretativo. Nel secondo senso si è espresso ancora il CNDCEC, che ha invocato la necessità di adottare comportamenti improntati a ragionevolezza, tenendo conto delle peculiarità della situazione straordinaria connessa alla crisi pandemica [14]. Nei paragrafi seguenti, allora, si cercherà di verificare se all’ipotesi, invero suggestiva, di un’interpretazione correttiva possa attribuirsi una veste dotata di una propria dignità sistematica e se, quindi, al di là della ragionevolezza, la stessa possa assurgere a soluzione dotata di un proprio solido fondamento ermeneutico.
Le soluzioni che sarebbero astrattamente ipotizzabili per pervenire a una razionalizzazione della norma e del sistema parrebbero essenzialmente due: A) quella di invocare una “sospensione tacita” (quasi una sorta di abrogazione temporanea tacita) dell’art. 14, comma 5, TUSPP; B) o quella di una sospensione del termine triennale dalla stessa contemplato, tanto se riferito al calcolo del triennio “iniziale” (ovverosia dell’arco temporale dopo il quale si perfezionano gli estremi che fanno scattare il divieto di soccorso finanziario), tanto se riferito al computo del triennio “successivo”, di cui all’eventuale piano di risanamento cui la società dovesse eventualmente aver fatto ricorso e che fosse quindi in corso di attuazione. La prima ipotesi consisterebbe nella temporanea disapplicazione dell’intera disciplina di cui all’art. 14, comma 5, TUSPP e, dunque, a prescindere dal fatto che i presupposti del divieto si fossero perfezionati già in data antecedente al 2020 e ci si trovasse quindi direttamente nella fase di applicazione tout court del divieto o che invece l’anno 2020 cadesse all’interno del triennio (iniziale o successivo) scaduto il quale il divieto sorgerebbe. La seconda ipotesi si differenzierebbe dalla prima per una serie di profili. E segnatamente: (i) condurrebbe alla sospensione non già della norma nella sua interezza (e quindi, ma solo eventualmente ed indirettamente, anche del termine), bensì del solo termine e del relativo computo; (ii) troverebbe fondamento non già in una figura giuridica riconducibili all’abrogazione (temporanea) tacita, ma in una interpretazione correttiva del disposto normativo, che conserverebbe quindi anche medio tempore pieno vigore, ma sarebbe sottoposto a una lettura evolutiva basata su argomentazioni di ordine principalmente sistematico, teleologico ed apagogico; (iii) comporterebbe un effetto non necessariamente automatico e generalizzato, ma suscettibile di un’applicazione selettiva e, dunque, solo eventuale e da calibrare sulle condizioni del singolo caso concreto.
La prima ipotesi, quella della “sospensione tacita”, potrebbe apparire, prima facie, fantasiosa e del tutto priva del pur minimo fondamento normativo e/o sistematico. A ben vedere, tuttavia, una dignità concettuale potrebbe esserle in qualche modo accreditata, attraverso la riconduzione a una matrice ricostruttiva comune alla abrogazione, seguendo un ragionamento articolato nei passaggi che saranno qui di seguito esposti. (i) Prima premessa del ragionamento è che il sistema conosce e disciplina la figura della c.d. “abrogazione tacita”: così all’art. 15 disp. prel. c.c., a tenore del quale «Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti …». L’abrogazione delle disposizioni “precedenti” per incompatibilità con le “nuove disposizioni” è, appunto, abitualmente descritta con l’espressione, puramente convenzionale, di “abrogazione tacita”, il cui meccanismo di funzionamento consiste nel fatto che l’incompatibilità tra le “nuove” e le “vecchie” disposizioni fa sì che non si potrebbe obbedire nello stesso tempo alle une o alle altre, dovendosi necessariamente obbedire o all’una e non all’altra o viceversa, di tal che non rimarrebbe che disapplicare la disposizione anteriore ed ottemperare a quella di più recente introduzione. Proprio l’incompatibilità tra le due disposizioni, difatti, costituirebbe l’incontrovertibile riprova del fatto che il legislatore successivo non abbia più voluto la disposizione anteriore [15]. (ii) Seconda premessa del ragionamento è che la “nuova” disposizione (“x”), a sua volta, ben potrebbe essere una disposizione abrogativa di altra precedente (“y”): in tal caso, la relazione che condurrebbe all’abrogazione tacita di una disposizione anteriore (“z”) per incompatibilità con la nuova disposizione (“x”) sarebbe più complessa e andrebbe descritta come relazione di incompatibilità tra la persistente applicazione della disposizione “z” e l’avvenuta abrogazione della disposizione “y” (in ciò consistendo la portata precettiva della nuova disposizione [continua ..]
Come per l’abrogazione tacita, anche la sospensione tacita presupporrebbe una assoluta incompatibilità tra la perdurante e ininterrotta applicazione della norma di cui si invoca la temporanea disapplicazione per tacita sospensione, da un lato, e la disposizione sospensiva, dall’altro. Facendone applicazione al caso che qui occupa, dovrebbe quindi assumersi che il rapporto tra le disposizioni del codice civile oggetto di sospensione (le disposizioni “y”, recanti l’obbligo di improcrastinabile riduzione del capitale per perdite) e le disposizioni di cui all’art. 14, comma 5, TUSPP (le disposizioni “z” sul divieto per le pubbliche amministrazioni di prestare soccorso finanziario alle proprie partecipate che versino in condizioni di perdita reiterata) sia tale per cui l’abrogazione o, rispettivamente, la sospensione delle prime (sancita con la “nuova” disposizione “x” di cui all’art. 6 del Decreto Liquidità) dovrebbe (necessariamente) comportare la tacita abrogazione o, rispettivamente, la tacita sospensione anche delle seconde, per incompatibilità della loro perdurante vigenza con il nuovo regime. Dovrebbe cioè assumersi che la perdurante applicazione del divieto di soccorso finanziario alle partecipate pubbliche sarebbe incompatibile con la disapplicazione delle disposizioni codicistiche sulla riduzione obbligatoria del capitale per perdite. Ebbene, è proprio tale incompatibilità che non sarebbe ravvisabile in concreto, atteso che tra i due regimi normativi non sarebbe affatto rinvenibile un nesso di “indissolubile legame”, né in termini di stretta dipendenza dell’uno rispetto all’altro, né finanche di mera connessione, se non per un solo e non decisivo profilo (quello relativo alla esenzione dal divieto in presenza di perdite che inneschino l’applicazione degli artt. 2447 e 2482-ter c.c.). A tal fine, pare decisivo il rilievo per cui tra i due ordini di previsioni normative (i) non ricorre una benché minima convergenza o omogeneità della ratio sottostante e, conseguentemente, (ii) non vi è coincidenza nell’area soggettiva di riferimento, (iii) non vi è coincidenza di fattispecie e, dunque, di presupposti oggettivi applicativi (iv) ed è diverso l’oggetto stesso della disciplina o, se si vuole, sono diverse le situazioni giuridiche soggettive [continua ..]
La “sospensione tacita”, inoltre, sarebbe rimedio non corretto (poiché inadeguato “per eccesso”) e non efficace (poiché inadeguato “per difetto”) rispetto all’obiettivo cui dovrebbe tendere, ovverosia rispetto al fine di rimuovere il difetto di razionalità complessiva del sistema conseguente al mancato adattamento della disciplina speciale dettata dal TUSPP in materia di divieto di soccorso finanziario. La ragione per cui si tratterebbe di rimedio non corretto (e inadeguato per eccesso) starebbe nel fatto che una sospensione integrale tout court dell’intero art. 14, comma 5, TUSPP porterebbe al risultato che per l’anno 2020 il divieto di soccorso finanziario non opererebbe, come se la norma fosse stata interamente (e sia pure temporaneamente) abrogata: il che varrebbe, dunque, anche per società per le quali il presupposto del divieto si fosse già perfezionato per aver chiuso in perdita gli esercizi 2017, 2018 e 2019 o per aver fallito un piano di risanamento il cui triennio si fosse chiuso, senza il risultato del ritorno all’equilibrio, nel 2019. In tal modo, invero, sarebbe come concedere una sorta di amnistia o di grazia collettiva, con assegnazione di un “premio” che, per tali società, non troverebbe alcuna giustificazione nella crisi pandemica (l’incapacità di recuperare un proprio autonomo equilibrio economico era già conclamata e risultava da indici perfezionatisi in epoca anteriore). Per di più, una volta che si dovesse assumere che l’intero art. 14, comma 5 (e non già il solo computo dei termini) debba reputarsi temporaneamente abrogato (recte, sospeso) per il 2020, la sua reviviscenza a far data dal 1° gennaio 2021 dovrebbe allora comportare che da quella data la norma entrerebbe in gioco alla stregua di una “nuova” disciplina. E, ciò premesso, si sarebbe dinanzi a due alternative, ciascuna delle quali condurrebbe a soluzioni per le quali il rimedio in questione risulterebbe nuovamente sproporzionato, per eccesso o per difetto, a seconda della soluzione prescelta. La prima alternativa sarebbe quella di ritenere che, trattandosi di nuova disciplina e dovendosene evitare un’applicazione in qualche modo “retroattiva”, il computo dei “trienni” (tanto quelli iniziali, tanto quelli relativi ad eventuali piani di risanamento cui si fosse [continua ..]
Ben diversi sarebbero gli esiti del secondo itinerario interpretativo, il cui approdo consisterebbe nella sospensione del solo termine triennale, ovverosia la mancata considerazione del 2020 nel computo dei tre anni che andrebbero ad integrare il presupposto generatore del divieto di soccorso finanziario o dei tre anni del piano di risanamento che fosse stato adottato quale misura legittimante la deroga dopo un primo triennio consecutivo di perdite. Il computo riprenderebbe, dunque, dal 2021, non già ricominciando da zero, bensì proseguendo dal numero progressivo cui, per ciascuna società partecipata, si fosse giunti fino al 2019 incluso. Per dare corpo a tale soluzione si dovrebbe, beninteso, assumere che la scelta di politica legislativa effettuata con la legislazione emergenziale di sospendere le norme sulla riduzione obbligatoria del capitale e sullo scioglimento conseguente alla mancata ricapitalizzazione testimonierebbe della anteposizione dell’interesse generale alla conservazione dell’impresa sugli interessi dei terzi oggetto di ordinaria protezione attraverso la disciplina del capitale; che quindi l’interesse alla conservazione dell’impresa, in questo particolare momento storico e in ragione della peculiarità del contesto economico e normativo, sarebbe considerato preminente rispetto ad altri interessi generali che pure, a regime ordinario, prevarrebbero, in caso di conflitto, sul primo; e che analogo capovolgimento di valori dovrebbe quindi valere anche tra interesse alla conservazione dell’impresa e interesse generale ad evitare emorragia di risorse pubbliche in favore di imprese in perdita reiterata. Una prima obiezione, che potrebbe astrattamente essere mossa in apicibus, al punto da bloccare in radice tale itinerario interpretativo, è stata già esposta e confutata al precedente par. 11. L’obiezione sarebbe quella di eccepire che, nella norma sospensiva della disciplina codicistica sulle perdite, la conservazione dell’impresa sia stata fatta assurgere in posizione preminente rispetto ad interessi ai quali è ordinariamente subordinata, sul presupposto che si sarebbe dinanzi ad imprese la cui continuità/sopravvivenza sarebbe stata messa a rischio da fattori esogeni e frutto di eventi di portata straordinaria, che hanno condotto a una crisi sistematica e generalizzata, e non già da fattori endogeni specifici della singola società; e [continua ..]
Superate le possibili obiezioni preliminari, possono essere allora sinteticamente esposte le argomentazioni, di ordine “sistematico”, “teleologico” e “apagogico”, che potrebbero fungere da supporto alla soluzione interpretativa “correttiva” che si è sopra delineata. Come si è detto, invero, ad accogliere tale impostazione, e diversamente dall’ipotesi della sospensione tacita, l’art. 14, comma 5, TUSPP continuerebbe ad essere a tutti gli effetti vigente nella sua piena portata precettiva, ma sarebbe semplicemente sottoposto a una (parzialmente) diversa interpretazione: un’interpretazione in chiave “evolutiva”, giustificata attraverso un processo ermeneutico più sofisticato e articolato. La (parzialmente) diversa interpretazione verrebbe difatti giustificata e argomentata alla luce del diverso assetto degli interessi finali protetti e dell’ordine di priorità dei valori perseguiti dal sistema (secondo un criterio di matrice teleologica/assiologica), quale emerge dalla evoluzione del sistema stesso ad opera della legislazione dell’emergenza (secondo un criterio di stampo sistematico/evolutivo); e godrebbe di un ulteriore supporto in un contesto ermeneutico di ordine “apagogico”, inteso al fine di scongiurare il rischio che una diversa lettura (non evolutiva, ma basata sul dato meramente letterale e formale) possa condurre a conseguenze addirittura divergenti, se non incompatibili, con il quadro degli interessi e dei valori che il sistema normativo pone attualmente in primo piano, così contribuendo al prodursi di effetti irragionevoli e di conseguenze in questo senso “assurde”, nel senso di “illogiche” e/o “irragionevoli” e/o in ogni caso incompatibili (e in collisione) con le finalità del sistema. Il risultato, come ripetutamente anticipato, sarebbe di sospendere non già l’intera norma, ma solo il termine, ovverosia il computo del termine triennale (iniziale o del secondo triennio connesso all’adozione di un eventuale piano di risanamento come misura in deroga). In particolare e più diffusamente, le argomentazioni spendibili sarebbero articolate come segue. (i) Il risultato cui si perviene sarebbe conseguenza di una interpretazione teleologicamente orientata. In tale prospettiva, si tratterebbe di lettura che: (i-a) non si porrebbe [continua ..]
Nonostante la numerosità e la persuasività delle argomentazioni spendibili a suo supporto, l’ipotesi interpretativa qui prospettata non potrebbe di certo essere considerata sicura (il che, per inciso, rafforza la necessità di invocare comunque un intervento normativo correttivo espresso). Alla stessa, invero, potrebbe essere obiettato che si tratterebbe, nella sostanza, di una sorta di interpretazione analogica, se non nelle forme dell’analogia legis, quanto meno in quelle della analogia iuris, giacché il perno fondante su cui poggerebbe sarebbe costituito dalla applicazione, al caso di specie, di un principio generale che si è ritenuto di poter estrarre dal complessivo statuto normativo formatosi con la legislazione emergenziale: il principio della neutralizzazione, per l’anno 2020, degli effetti estintivi che potrebbero derivare dal concorso di un fattore fattuale (le perdite o la perdita di continuità indotti dalla crisi pandemica) con un fattore formale (la soggezione a un regime normativo che, calibrato su scenari ordinari, si tramuta in una sorta di “condanna” all’estinzione indilazionabile dell’impresa quale conseguenza di regole innescate dal perfezionamento di una fattispecie i cui presupposti siano costituiti proprio da quelle perdite o da quella perdita di continuità). L’ostacolo, allora, sarebbe almeno duplice. Da una parte, se è vero che ai tre gruppi di norme (sospensione della disciplina sulla riduzione obbligatoria del capitale, possibilità di adottare criteri di valutazione di bilancio in deroga e nella logica comunque della continuità, proroga della data di entrata in vigore delle norme del Codice della crisi sull’allerta) è sottesa una ratio comune che sarebbe anche possibile formulare e sintetizzare nella cennata “neutralizzazione”, è anche vero che la stessa appare più facilmente ricostruibile come ratio legis, piuttosto che come vero e proprio principio generale [23]. D’altra parte, quand’anche davvero si trattasse di un vero e proprio principio generale della legislazione emergenziale, lo stesso darebbe corpo a una deroga rispetto alla disciplina ordinariamente applicabile e, dunque, costituirebbe regola, seppur generale di quel microsistema, comunque eccezionale rispetto alla disciplina generale antecedente ed estranea a quel microsistema. Con il che la [continua ..]
Se la soluzione prospettata fosse stata quella dell’analogia, la sospensione (del computo) del termine per il 2020 sarebbe stata allora automatica, in uno con la soluzione adottata nel diritto positivo dell’emergenza pandemica. Avendo invece chiarito che si tratterebbe piuttosto di abbracciare un’interpretazione correttiva ed evolutiva dell’art. 14, comma 5, TUSPP, volta ad evitare che la norma venga applicata in un senso confliggente con la propria stessa ratio, con i principi, di rango costituzionale, di uguaglianza e ragionevolezza, con i valori emergenti dal sistema (tanto da quello ordinario e generale, quanto dal micro-sistema normativo della legislazione emergenziale) e tale da condurre a risultati viziati sul piano logico e razionale, la questione dell’automatismo o meno della prospettata sospensione del termine triennale per l’anno 2020 rimane completamente aperta. Si potrebbe, invero, ipotizzare che il difetto di razionalità e coerenza qui paventato si manifesterebbe per quelle sole partecipate per le quali sia possibile affermare che la chiusura in perdita dell’esercizio 2020 sia dovuta, in via esclusiva o quantomeno determinante, agli effetti della crisi pandemica. Ove, per contro, si trattasse di partecipate che avrebbero in ogni caso chiuso in perdita per una endogena incapacità di conservare un equilibrio nei conti, la sospensione del termine non presenterebbe analoga giustificazione: la crisi pandemica non avrebbe determinato, né concorso in modo decisivo a determinare, lo squilibrio dei conti e dei risultati di bilancio, cosicché non ricorrerebbero ragioni per disapplicare un regime normativo che nella reiterazione delle perdite per un intero triennio ravvisa indici sufficienti a decretare l’incapacità della partecipata di sopravvivere in condizioni di autonomo equilibrio e ne fa discendere, a tutela dei conti pubblici, il divieto di soccorso finanziario da parte dei soci pubbliche amministrazioni [24]. Certo, in questo modo si introdurrebbe un elemento valutativo foriero di incertezze applicative e intriso di un certo margine di discrezionalità. Ma si tratterebbe di uno scotto da pagare e, per così dire, di una condizione da soddisfare se si vuole evitare che l’interpretazione prospettata si trasformi in una sorta di “grazia” generalizzata e indiscriminata, concessa anche al di là di quanto sarebbe [continua ..]
In caso di mancato accoglimento della proposta interpretativa qui prospettata, occorrerebbe farsi carico di una specifica e delicata questione, cui si è già fatto cenno nel corso della precedente esposizione. Come si è ripetutamente rammentato, una delle ipotesi nelle quali, ai sensi dell’art. 14, comma 5, TUSPP, il socio pubblico è esentato dal divieto di soccorso finanziario in favore di partecipate che pure abbiano registrato perdite per almeno un triennio consecutivo è per interventi di ricapitalizzazione effettuati per ricostituire il capitale perduto nei casi di cui agli artt. 2447 e 2482-ter c.c. Come del pari anticipato, la ratio della previsione sta nel fatto che la ricapitalizzazione è in questo caso consentita al fine di evitare quella che sarebbe altrimenti una causa di scioglimento della società e di conseguente estinzione dell’impresa quale conseguenza della messa in liquidazione. Ebbene, come si è ripetutamente rammentato, quella causa di scioglimento, assieme all’intera disciplina di cui agli artt. 2447 e 2482-ter c.c., è sospesa per l’intero 2020 (art. 6, Decreto Liquidità). Da qui nasce, appunto, la questione: se la ragione della deroga accordata dall’art. 14, comma 5, TUSPP, fosse davvero tutta e solo nella volontà di consentire che venga evitato lo scioglimento, una siffatta giustificazione, nel corso del 2020, non sarebbe allora invocabile. Ed è vero – si potrebbe astrattamente obiettare – che a fronte di una perdita integrale del capitale nulla impedirebbe di effettuare comunque la ricapitalizzazione su base volontaria previa riduzione del capitale nelle medesime forme e adempiendo a tutte le formalità previste per il caso della riduzione obbligatoria [25]. Ma non si potrebbe tuttavia affermare che, così facendo, si starebbe adempiendo a un “onere” al fine di evitare lo scioglimento. Certo, vi sarebbe ancora lo spazio per sostenere che la formulazione letterale dell’art. 14, comma 5, TUSPP, sarebbe compatibile con l’ipotesi di una ricapitalizzazione volontaria in presenza di perdite oltre un terzo che abbiano condotto il capitale al disotto del minimo legale. Il tenore della norma parrebbe invero, a tale riguardo, sufficientemente ampio e comprensivo, giacché si limita, genericamente, a fare «salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter [continua ..]
Da ultimo alcune precisazioni finali. (i) Una prima precisazione, forse scontata e purtuttavia necessaria per scrupolo di chiarezza e completezza, è che le valutazioni alla base della possibilità di giustificare una sospensione del calcolo dei termini non potranno andare disgiunte dall’adozione di ogni opportuno provvedimento volto a fronteggiare le difficoltà generate dalla crisi pandemica: e ciò anche in ragione del fatto che gli artt. 6 e 14, commi 2, 3 e 4, TUSPP, non sono stati oggetto di sospensione e continuano ad applicarsi appieno ed incondizionatamente, inclusa la disposizione di cui all’art. 14, comma 4, per cui «Non costituisce provvedimento adeguato […] la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie […]» [26]. Allo stesso modo, dovrà essere prestata la massima cura alla circolazione e alla condivisione delle informazioni, delle valutazioni e delle decisioni che i diversi soggetti preposti avranno a disposizione e saranno chiamati ad assumere, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo e delle proprie funzioni (aziendali e/o organiche) e, dunque, secondo le proprie competenze e responsabilità. Occorrerà quindi dedicare un’attenzione e mostrare una sensibilità ancora più marcate di quanto già non sia ordinariamente dovuto alla circolazione dei flussi informativi dagli uffici preposti nell’ambito della struttura organizzativa aziendale verso gli organi delegati, da questi verso l’organo collegiale, dagli amministratori verso gli organi di controllo, nonché (per quanto di rispettiva competenza e, secondo i casi, con le peculiarità anche organizzative connesse all’eventualità che si tratti di società “a controllo pubblico” o ancor più di società “in house”) verso gli stessi soci. Tutto ciò anche al fine di assicurare che le misure che saranno adottate siano frutto di una adeguata ponderazione, che non potrà non dipendere anche e soprattutto dal livello di trasparenza, condivisione ed articolazione dialettica del processo istruttorio, valutativo e decisionale. (ii) La seconda precisazione è che la conclusione cui si è pervenuti è che, pur in assenza di un quadro di certezza, non mancherebbe la possibilità di seguire [continua ..]