Obiettivo della presente nota è quello di analizzare una recente sentenza della Cassazione in tema di liquidazione del danno derivante dalla violazione degli obblighi facenti capo agli amministratori delle società di capitali, al verificarsi di una causa di scioglimento, per svolgere alcune riflessioni sull’evoluzione giurisprudenziale in materia, anche alla luce del novellato art. 2486 c.c.
The aim of this article is to analyse a recent decision of the Court of Cassation regarding the assessment of damages arising from the violation of obligations borne by company directors, upon occurrence of a reason for liquidation, in order to set out some reflections about the development of the decisions of the Courts, by the light of the amended article 2486 of Italian Civil Code.
Keywords: directors – action against directors – assessment of damages – criteria – difference between net assets values – difference between bankruptcy liabilities and assets.
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1. La liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori: premessa - 2. L’evoluzione giurisprudenziale tra insufficienza dell’attivo fallimentare e nesso di causalità - 3. La modifica dell’art. 2486 c.c. e la sua prima applicazione nella giurisprudenza della Suprema Corte - 4. La rivalutazione del principio di causalità - NOTE
A circa un anno di distanza da un suo significativo precedente [1], la Suprema Corte torna a pronunciarsi sull’argomento in oggetto – con la sentenza che si annota – fornendo lo spunto per alcune riflessioni sui criteri applicabili alla identificazione e liquidazione del danno derivante dal compimento di operazioni successive al verificarsi di una causa di scioglimento delle società di capitali. L’analisi si concentrerà sull’evoluzione giurisprudenziale in materia, anche alla luce della recente modifica dell’art. 2486 c.c., come introdotta dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (c.d. Codice della crisi d’impresa), che ha inserito nella citata disposizione alcune presunzioni relative alla liquidazione del danno. Ne emergerà un percorso quasi circolare che, muovendo da un’applicazione sostanzialmente acritica del criterio della differenza tra passivo e attivo fallimentare, passa attraverso una opportuna rivalutazione del nesso di causalità tra inadempimento e danno, per poi riavvicinarsi (inopportunamente e per volontà del legislatore) al punto di origine.
L’incipit della vexata quaestio può essere ricondotto alla (ormai risalente) sentenza della Suprema Corte secondo cui “Nel giudizio di responsabilità contro i sindaci di una società, che sia stato promosso dal curatore del fallimento della società medesima, ai sensi dell’art 2407 cod. civ., per non avere i sindaci vigilato sull’attività illecita degli amministratori, consistente nel porre in essere operazioni dopo la totale perdita del capitale sociale (art 2449 cod. civ.), il danno va commisurato all’insufficienza dell’attivo fallimentare, e, cioè, alla differenza fra il passivo e l’attivo, nei limiti in cui tale insufficienza sia legata da nesso di causalità a quel comportamento omissivo” [2]. Il criterio cardine da utilizzare per la liquidazione del danno derivante dalla violazione del divieto di compimento di nuove operazioni veniva dunque identificato nella differenza tra passivo e attivo fallimentare. Il punto nevralgico della decisione appena citata consisteva, tuttavia, nella verifica solo apparente del nesso di causalità tra i) la violazione da parte degli amministratori del divieto di nuove operazioni ex art. 2449 c.c. (nella versione antecedente alla riforma del diritto societario del 2003), nonché del correlato obbligo di vigilanza da parte dei sindaci ex art. 2407 c.c., e ii) il danno concretamente subìto dalla società. Quest’ultimo, invero, veniva parificato alla differenza tra passivo e attivo fallimentare [3], sul presupposto, niente affatto scontato, che le nuove operazioni fossero in diretta relazione di causalità con il danno che si assumeva (in realtà: aprioristicamente) prodotto. Tale opzione interpretativa veniva successivamente confermata dalla Suprema Corte in altra decisione, che risulta interessante per un ulteriore elemento di rigidità introdotto nel percorso logico ivi seguìto: in particolare, si era ritenuto che la totale mancanza di contabilità sociale, o la sua tenuta insufficiente, fosse di per sé giustificativa della condanna dell’amministratore al risarcimento del danno, vertendosi in materia di violazione da parte dell’amministratore di specifici obblighi di legge, come tale idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale [4]. Di particolare interesse, ai fini della presente [continua ..]
Il nuovo comma 3 dell’art. 2486 c.c. così recita: “Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura” [9]. Nella prima parte della nuova disposizione è stata dunque introdotta una presunzione semplice, operante a discapito degli amministratori e basata sul criterio dei c.d. netti patrimoniali rettificati: una volta accertata la responsabilità degli amministratori, si presume, fino a prova contraria, che il danno subìto dalla società corrisponda alla differenza negativa di patrimonio netto calcolata in riferimento alle date sopra indicate. Appare evidente il “colpo” ipoteticamente inferto dal legislatore all’applicazione del principio di causalità in subiecta materia: tra la premessa (responsabilità degli amministratori) e la conclusione (danno corrispondente al netto patrimoniale rettificato) rischia di considerarsi superata la necessità di verificare il nesso di causalità tra l’inadempimento degli amministratori ed il danno subìto dalla società, con ciò vanificando l’apprezzabile evoluzione giurisprudenziale culminata nel pronunciamento delle Sezioni Unite del 2015 [10]. Per di più, il secondo alinea del citato comma 3 introduce un ulteriore automatismo, dedicato alle società assoggettate a procedure concorsuali e basato sul presupposto della mancanza di scritture contabili o insufficienza delle medesime per l’individuazione dei netti [continua ..]
L’analisi non può che muovere dal tenore letterale dell’art. 2486, comma 3, c.c., ai sensi del quale “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo”, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari ai c.d. netti patrimoniali rettificati. Ebbene, per quanto sopra esposto, la responsabilità degli amministratori dovrà considerarsi di natura contrattuale, derivando dalla violazione di una disposizione di legge (art. 2486 c.c.) loro applicabile in forza del rapporto di amministrazione che li lega alla società. Pertanto, tale responsabilità non potrà che essere assoggettata al combinato disposto di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c. e, per quanto interessa in questa sede, al principio di causalità ivi sancito. Se così non fosse, si determinerebbe un vero e proprio stravolgimento dei principi che disciplinano l’operare degli amministratori e le conseguenze patrimoniali cui essi risultano esposti in virtù dell’incarico che svolgono. In sostanza, si delineerebbe un ambito, sia pur circoscritto, in cui gli amministratori sarebbero chiamati a rispondere del loro operato a prescindere da ogni verifica sul fatto che le nuove operazioni (indebitamente) poste in essere possano, o meno, aver procurato un pregiudizio economico alla società. Si pensi al caso in cui il netto patrimoniale rettificato risulti essere negativo non perché le operazioni successive al verificarsi di una causa di scioglimento si siano rivelate dannose [24], ma perché, pur essendo queste ultime “neutre” (o persino vantaggiose) per la società, l’incidenza negativa sul patrimonio netto sia derivata da atti legittimamente compiuti dagli amministratori prima del verificarsi della causa di scioglimento, ma destinati a produrre i loro effetti negativi solo successivamente ad esso, e dunque anche a discapito di un’eventuale attività liquidatoria. D’altra parte, non è mai possibile escludere a priori la ricorrenza di effetti direttamente connessi alla prosecuzione dell’attività sociale e non eliminabili neppure mediante il ricorso tempestivo alla messa in liquidazione della società. Ed allora, a meno di non voler stravolgere i canoni fondamentali che regolano la responsabilità contrattuale, sembra opportuno [continua ..]