Il contributo analizza il tema del rischio-reato nell’attività d’impresa in relazione alla responsabilità da reato degli enti collettivi, soffermandosi sull’opportunità, anche in termini di migliore efficacia della corporate governance, di svincolare la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 dal rimprovero penale nei confronti di una persona fisica, identificando legislativamente taluni specifici illeciti direttamente riferibili all’ente collettivo.
The paper analyzes the impacts of the risk of committing crimes while doing business, in relation to the criminal liability of corporate entities: the Author claims the opportunity, in order to ensure effective corporate governance, to separate the corporate liability under the legislative decree 231/2001 from the criminal liability of a specific member of the corporation, identifying specific offenses directly referred to corporate entities.
Keywords: business risk – corporate liability – corporate governance – business and corporate criminal law.
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Nel corso degli ultimi due decenni, il profilo della gestione del rischio di commissione di illeciti penali nell’esercizio di un’attività imprenditoriale ha assunto, anche nel nostro Paese, i connotati di un banco di prova decisivo per la realizzazione di un sistema di corporate governance realmente efficace. All’indomani dell’approvazione del d.lgs. n. 231/2001, con il quale si è avviato il percorso di progressiva responsabilizzazione diretta degli enti collettivi, in relazione ai reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio dagli appartenenti all’organizzazione dell’impresa, il catalogo di strumenti, regole, relazioni, processi e sistemi aziendali, finalizzati a una gestione corretta ed efficiente, si è arricchito di un nuovo fronte di applicazione, volto non solo a contemperare gli interessi (potenzialmente divergenti) dei soci di minoranza, dei soci di controllo e degli amministratori, ma ad assicurare un adeguato bilanciamento tra questo multiforme fascio di interessi giuridici ed economici e il rispetto delle regole di una competizione economica improntata il più possibile ad autentica fairness. Indubbiamente, ciò rappresenta un ulteriore frutto di quella concezione più evoluta del ruolo dell’impresa, progressivamente consolidatasi nel corso degli ultimi quarant’anni, secondo la quale la stessa è da ritenersi portatrice di una responsabilità sociale assai più estesa di quanto non fosse tradizionalmente riconosciuto in passato, nei confronti di una schiera sempre più nutrita di stakeholder individuali e collettivi (lavoratori, manager, fornitori, clienti, comunità territoriali) che vantano un interesse legittimo nei confronti dell’ente societario e il cui contributo è essenziale al successo dell’impresa sul mercato [1]. Così, l’inveterato schema concettuale secondo cui l’equilibrio tra istanze sociali e attività d’impresa sarebbe da individuarsi in base all’assunto che la ricerca del profitto, da parte dei privati in competizione tra loro, è il miglior propulsore per assicurare allo stesso tempo un effettivo progresso economico e sociale, è stato progressivamente soppiantato dalla consapevolezza che la competizione per il successo economico non necessariamente suscita un miglioramento delle condizioni di vita dei [continua ..]
Il punto di partenza dal quale muovere nel ragionamento concerne la strettissima connessione esistente tra l’effettività del sistema di responsabilità degli enti e la percezione del rischio-illecito da parte dei suoi stessi componenti. L’osservazione può apparire banale, nella misura in cui non fa che trasporre nel mondo delle imprese una considerazione pacifica nell’ambito del diritto penale “tradizionale”: la funzione orientativa del diritto penale, la sua anima nobile, è destinata all’insuccesso, e dunque ad essere tradita, se la minaccia della pena non sortisce – e non è percepita come idonea a sortire – gli effetti desiderati (rieducazione, generalprevenzione, ecc.); allo stesso modo, la partnership pubblico-privato [15], che informa la responsabilizzazione degli enti, reclama la fiducia [16] delle imprese nella possibilità di prevenire efficacemente l’illecito, di modo che la sanzione si atteggi come concretizzazione di un fallimento oggettivo e tangibile, attribuibile alla mancata (o, comunque, incompiuta) assimilazione dei principi di una cultura aziendale tesa alla legalità [17]. In quest’ottica, la colpa dell’ente – similmente a quella della persona fisica – deriva dalla verificazione di un evento prevedibile ed evitabile, che non si è, per carenze strutturali, riusciti a prevenire. Solo così la punizione può essere avvertita sì come stigma, ma anche occasione per un proficuo intervento sull’organizzazione dell’ente, a partire dalla diagnosi di ciò che in concreto non ha funzionato [18]. Per converso, come è stato lucidamente osservato, la rarefazione dell’anima soggettivistica della responsabilità dell’ente «finirebbe fatalmente per scoraggiare (o, comunque, non incentivare) politiche di prevenzione, inducendo gli enti a considerare le sanzioni alla stregua di altrettanti costi “necessari”, da scaricare, come esternalità negative, sulla collettività» [19]. E tale infausto risultato è collegabile non solo all’esaltazione del paradigma di immedesimazione organica per i reati commessi dagli apicali [20], ma, più in generale, ad ogni forma di automatismo sanzionatorio, attraverso il quale si offusca [continua ..]
A distanza di quasi venti anni dalla sua introduzione nell’ordinamento, lo schema di responsabilizzazione degli enti delineato dal legislatore italiano – che indubbiamente costituisce «una tra le innovazioni più significative e “coraggiose” del diritto penale moderno» e «rappresenta un modello molto riprodotto (si veda, ad esempio il Bribery Act, ma anche la recente normativa spagnola) di regolamentazione in materia» [28] – ha ormai compiutamente dimostrato tanto le sue (apprezzabili) capacità, quanto le sue (non trascurabili) criticità, rendendo maturi i tempi per avviare una stagione di riforma che faccia tesoro di questi primi due decenni di esperienza e consenta sia di salvaguardare i «piani nobili dell’edificio 231, facendo in modo che «gli “animi nobili”, ben intenzionati a renderlo il più possibile abitabile, non siano sfrattati e mandati “in cantina”» [29], sia di correggere quelle storture architettoniche – talvolta originarie, talaltra frutto di malaccorti accrescimenti legislativi – che rappresentano i punti di debolezza della costruzione e possono determinarne, se non risanati tempestivamente, l’inesorabile decadimento. Una delle criticità più evidenti, emerse nell’esperienza di applicazione pratica del d.lgs. n. 231/2001, sembra in qualche modo riecheggiare la prima legge sopra citata: l’enorme e, talvolta, insostenibile peso della compliance. Il compiuto rispetto delle cautele richiede, cioè, l’adozione di presidi inesigibili da parte di un numero assai rilevante di destinatari del decreto, finendo per rappresentare più un ostacolo a un’efficace corporate governance che non un ausilio effettivo alla gestione dell’impresa. Si tratta di un dato ormai costantemente rimarcato negli studi dottrinali che più da vicino si sono occupati del tema: in un contesto socio-economico come quello italiano, nel quale – stando agli ultimi dati Istat disponibili – il 95% delle aziende dei settori industria e servizi ha meno di 10 addetti (percentuale che sale al 99,5% se si guarda alle imprese con meno di 50 dipendenti) e dà occupazione a quasi il 50% dei lavoratori del settore (pari a circa 17,5 milioni), gli schemi di responsabilizzazione degli enti delineati dal [continua ..]
Prima di dedicare qualche riflessione ai possibili antidoti rispetto a tali pericolose derive, è necessario completare il quadro considerando come l’assimilazione della responsabilità a un costo d’impresa, oltre a tradire lo spirito del Decreto, abbia aperto fisiologicamente la strada a prassi di negoziazione della stessa, alimentando una marcata discrezionalità dell’ufficio del Pubblico Ministero [53]. Benché la questione dell’obbligatorietà dell’azione nei confronti dell’ente meriterebbe un apposito approfondimento argomentativo, non sviluppabile in questa sede, sembra proprio che anche l’illecito amministrativo dell’ente sia sottratto a qualsiasi vaglio discrezionale dell’autorità inquirente e debba – rectius, dovrebbe – essere automaticamente contestato ogniqualvolta se ne ravvisino gli estremi [54]. Ciononostante non sono rare le realtà di distretti giudiziari nei quali il d.lgs. n. 231 è rimasto quasi lettera morta, oggetto delle riflessioni svolte in convegni e iniziative formative, senza tuttavia esprimere significative ricadute pratiche nella prassi processuale. Tale risultato può essere certamente stato influenzato da una sana ritrosia nell’applicare il d.lgs. n. 231 in contesti geografici ad alta densità di imprese medio-piccole alle quali – come si è visto – il Decreto mal si attaglia, cosicché il dato in sé – apparentemente indicativo di un fallimento della norma, quanto meno nel momento dell’enforcement – può talvolta essere letto con favore, quale rimedio approntato empiricamente alla superfetazione dei livelli sanzionatori. E tuttavia, una situazione come quella appena descritta non può che suscitare profondi interrogativi nell’interprete, laddove il principio di uguaglianza viene evidentemente messo in crisi, aprendo la strada a una giustizia “caso per caso” che, lungi dall’essere frutto di una precisa scelta legislativa, appare frutto dell’imperscrutabile apprezzamento del singolo ufficio inquirente. Una volta che l’illecito sia stato ritualmente contestato all’ente, tuttavia, il principale terreno di negoziazione si sviluppa attorno alla possibile opzione a favore di riti alternativi, da sempre assai in voga tra gli enti; ed è proprio la frequente [continua ..]
Le riflessioni svolte fin qui hanno consentito di mettere in evidenza talune specifiche criticità che l’esperienza applicativa del d.lgs. n. 231/2001 ha posto con nettezza all’attenzione degli interpreti. Provare ad affrontarle significa tentare tanto di individuare taluni rimedi che intervengano – per così dire – “dentro la cornice” disegnata dal legislatore, apportando quei correttivi disciplinari che consentano di ovviare alle principali problematiche emerse nella prassi, quanto di valutare la possibilità e l’opportunità, specialmente in alcuni specifici contesti, di “saltare fuori dalla cornice”, affrancando una volta per tutte la responsabilità dell’ente dal previo accertamento della realizzazione di uno specifico reato-presupposto da parte di una persona fisica dei cui comportamenti possa essere chiamata a rispondere, in qualche misura, anche l’ente collettivo. Sotto il primo profilo, sarebbe auspicabile in primo luogo, come già si è accennato, un’indicazione normativa chiara sulle conseguenze giuridiche della cooperazione dell’ente nell’attività di emersione dei comportamenti illeciti: la promozione della cultura della legalità all’interno delle imprese, quale strumento indispensabile per una più efficace corporate governance, non può infatti essere autenticamente favorita, fino a che l’ente sia lasciato strutturalmente nel dubbio circa la “convenienza” della collaborazione con le agenzie di controllo. Regole chiare, che specifichino in presenza di quali condizioni – conoscibili ex ante – la persona giuridica possa ottenere la non sanzionabilità anche a fronte di illeciti commessi nel suo interesse o vantaggio, rappresentano la base di partenza per un corretto rapporto di “agency” tra potere pubblico e soggetti collettivi privati [62]: la situazione di sostanziale aleatorietà nella quale, oggi, versa il giudizio circa l’idoneità preventiva del modello di organizzazione e gestione dovrebbe dunque essere al più presto superata, non tanto attraverso la previsione di procedimenti di certificazione ex ante – che da un lato si esporrebbero alle critiche già illustrate in precedenza [63] e dall’altro lascerebbero comunque ampia [continua ..]